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Assemblea generale: intervento di Sergio Billè

Relazione del Presidente di Confcommercio Sergio Billè all'Assemblea generale delle Province

Istituzioni e Riforme    2/12/2003

Sul fatto che, in Italia, sia utile, forse ormai quasi indispensabile una riforma  federalista non credo che vi siano più dubbi o fondate remore. Del resto, è  da tempo che, sia pure in modo confuso e talvolta contraddittorio, ci si sta muovendo in questa direzione.
Il punto su cui ancora si discute non è  tanto il progetto federalista in sé, quanto l’individuazione di una sua architettura istituzionale che, organizzata su più livelli,  riesca non solo a comporre i problemi e  gli interessi territoriali  con quelli nazionali, ma realizzi  anche una maggiore  efficienza al sistema che possa, nel suo complesso,  finalmente soddisfare le nuove  istanze e i nuovi bisogni della società civile e, in particolare, quelli delle sue componenti economiche ed imprenditoriali.

E, all’interno di questa architettura, le  Provincie, dovrebbero senza dubbio  avere un ruolo cardine  di ponte funzionale tra la grande  progettualità di competenza delle Regioni  e la gestione più strettamente locale svolta dai Comuni.

E’ una funzione che le Provincie già in parte svolgono, tanto è vero che esse, ad esempio, gestiscono direttamente  già  l’84% della rete stradale nazionale e hanno parte sempre più attiva  nella definizione e nella soluzione di problemi di grande valenza territoriale quali lo sviluppo economico, la tutela ambientale, la promozione turistica e molte altre cose ancora. Anche le strutture provinciali dovrebbero insomma diventare una componente essenziale di un sistema federalista che riesca  a creare sul territorio un rapporto che sia finalmente virtuoso nel senso che, a fronte dei necessari corrispettivi, il cittadino possa ottenere dalla pubblica amministrazione e ad ogni livello un buon funzionamento di tutti i servizi di base sia materiali  cioè strade, energia, acqua, sicurezza, ecc., sia immateriali  cioè salute, cultura, assistenza tecnica, formazione, ecc.

Si tratta  di definire un quadro giuridico e una linea di interventi che, seguendo gli indirizzi e la carta dei valori a cui si ispira oggi l’Unione europea, assicurino in eguale misura su tutte le parti del territorio livelli equivalenti di giustizia, di sviluppo, di salute.
E poi occorre uno Stato che svolga una funzione, un ruolo di sempre più attiva  compensazione tra gli interessi locali e quelli della comunità nazionale.

Se non si parte da  questo corollario, anche la riforma federalista corre il rischio di diventare un fattore distorsivo, fine a sé stesso,  un  elemento disaggregante e non aggregante per quella riforma del sistema-paese che tutti diciamo da tempo di volere.
Ma la domanda che mi pongo  è: esiste  già davvero una intelaiatura di base che, possedendo tutti gli attributi necessari, sia in grado oggi di  realizzare una  riforma  di sistema che raggiunga questo obiettivo?

A me pare di no e non credo di essere il solo ad avere oggi dei dubbi al riguardo.
C’è, infatti, ancora un’evidente “sfasatura” tra i progetti di conio politico e le sempre crescenti, motivate e pragmatiche istanze di  cittadini ed imprese per la realizzazione di un progetto di decentramento amministrativo e di un modello costituzionale che assicurino non solo un grado di maggiore efficienza della pubblica amministrazione, ma anche forme di più diretta e più produttiva partecipazione e di  maggiore controllo su tutta la gamma  delle sue attività.

Il pericolo è che, nel nuovo sistema federativo, si trasferiscano molte delle  incrostazioni, delle lentezze, delle disparità di comportamento e  delle palesi incongruenze manifestate, nel corso di tutti questi anni, dal vecchio sistema centralista.

E di un modello di stato federalista, che finisse con l’ereditare molti dei difetti del vecchio sistema, cittadini ed imprese non saprebbero proprio cosa farne.
Proprio perché parliamo di nuova e per noi inedita architettura costituzionale sarà bene mettere sul tappeto qualche problema.

Prima di tutto quello del telaio delle competenze che Stato, Regioni, Provincie e poi Comuni, potenziando le loro strutture, sono chiamati a svolgere.
E qui il discorso si fa davvero serio. Primo, sarebbe un guaio se il vento della politica spargesse ora anche sul territorio i semi di quel burocraticismo inefficiente, egocentrico ed improduttivo che, nel vecchio Stato, ha purtroppo messo, nel corso dei decenni, profonde radici: per avere altri frutti, occorre cambiare tipo di seminagione, se no, nel giro di pochi anni, avremo, sul territorio, lo stesso genere di radici e di piante. Insomma evitiamo di ripetere gli errori commessi dalla riforma Bassanini che, nei fatti, si è rivelata assai diversa da quelle che potevano anche essere le sue buone intenzioni.

Secondo, il quadro delle competenze va delineato in modo che non vi siano inutili e costose sovrapposizioni tra le diverse strutture. Le Provincie, proprio perché operano su aree circoscritte, possono svolgere un ruolo più diretto e più pregnante su problemi che, per il territorio, sono diventati ormai di vitale importanza quali  l’efficienza della rete stradale ma anche i sempre maggiori problemi che presenta l’eco sistema quali, ad esempio, la tutela dell’ambiente e una più moderna, sistematica e meglio programmata utilizzazione dei rifiuti oggi allocati quasi tutti in discariche a cielo aperto la cui nocività ed improduttività ha ormai raggiunto livelli insopportabili anche sotto il profilo dei costi. E poi politiche di sviluppo economico che, nel perimetro provinciale, possano  essere più propulsive e finalmente più consapevoli delle esigenze di chi oggi, volendo fare impresa, si trova spesso a cozzare contro il muro delle regole di una burocrazia miope e inefficiente. E poi ancora il turismo che, per lievitare e radicarsi sul territorio, ha bisogno di interlocutori che, nella sfera pubblica, parlino finalmente lo stesso linguaggio di chi cerca di fare impresa e di produrre, in quell’area, nuova ricchezza.

Il decentramento delle funzioni potrà essere assai più produttivo per il sistema se ogni istituto potrà trovare piena legittimazione nel ruolo che esso è chiamato a svolgere. Affastellare e sovrapporre poteri e competenze dei vari organi significherebbe creare non una nuova architettura istituzionale, ma una Torre di Babele.

E dicendo questo non credo di porre un problema solo astratto e teorico perché il corso della politica anche di questi ultimi anni non ha certo reso più trasparente e maggiormente legittimato il ruolo prettamente amministrativo che le singole Istituzioni sarebbero chiamate a svolgere e che, invece, il vorticoso gioco dei pesi e dei contrappesi di cui è fatta la politica continua spesso a fortemente condizionare.

Quindi meno clientelismo di piccolo o medio cabotaggio, diversa cultura amministrativa, più amministratori pubblici che sappiano, sotto il profilo politico, “spersonalizzarsi” e che sappiano, invece, operare in funzione di quelle che sono le concrete esigenze del mercato e le  reali aspettative di imprese e famiglie.

Ma i problemi non finiscono certo qui. Perché questa nuova architettura istituzionale prenda forma e poi diventi davvero operativa manca un altro importante, direi essenziale tassello.

Parlo ovviamente del federalismo fiscale, un problema che avrebbe dovuto essere risolto ante litteram, prima cioè di dar corpo alla riforma federalista e che, invece, giace  irrisolto, sulle nuvole di un dibattito che appare  del tutto astratto e comunque ancora lontano da ponderate soluzioni.

Non è stato risolto il problema delle risorse che sicuramente occorreranno per costruire questa intelaiatura istituzionale e si tratta di decine e decine di miliardi  di euro. Fino a quando non si troveranno queste ingenti risorse oggi necessarie solo per l’avvio del nuovo sistema, si continueranno a fare discussioni importanti sotto il profilo accademico, ma prive dei necessari supporti operativi.

Come non è ancora affatto chiaro quale sarà la diversa ripartizione delle risorse e se essa sarà sufficientemente congrua per alimentare il funzionamento della nuova macchina federalista.

Insomma l’interrogativo non è oggi solo quello di “chi fa che cosa”, ma anche quello di “chi tassa che cosa” e per quale funzione.


E’ importante costruire un nuovo modello istituzionale che maggiormente aderisca alle nuove istanze della società, ma questo modello rischia di restare in panne sulla strada dopo qualche chilometro, se non si farà in modo che esso possa riempire periodicamente di benzina il suo serbatoio.

Sinceramente non ho ancora capito se e come questa benzina verrà erogata, in quale quantità e con quali criteri.

Perché un fatto è certo: se la legge finanziaria approvata quest’anno ha già ridotto, per comprensibili ragioni di bilancio, i trasferimenti a Regioni, Provincie e Comuni di quelle risorse che erano necessarie solo per la manutenzione diciamo pure di routine delle loro  strutture e per l’assolvimento delle loro attuali competenze, dove si prenderà tutto il denaro poi occorrente per dar corpo e vitalità al nuovo sistema?

Molte strutture territoriali, operando, per loro fortuna, in aree che hanno un elevato standard di produzione di ricchezza, hanno potuto mettere qualche toppa al loro bilancio facendo leva solo su piccoli accorgimenti (ticket ed altro), ma molte altre- e tutti sappiamo bene quali- sono ormai vicine alla canna del gas.

Certo è un problema di carattere congiunturale che, prima o poi, se vi sarà, come tutti si augurano, la ripresa economica, potrà essere, in qualche modo, risolto.
Ma è il domani o, se credete, il dopodomani che ci preoccupa perché nessuno ci ha ancora detto quale sarà l’assetto fiscale dell’Italia federalista. E fino a quando non si metterà in chiaro questo problema, il federalismo continuerà ad essere solo un’ambiziosa astrazione.

Consentitemi un’ultima riflessione su un altro tema decisamente attuale, quello della privatizzazione dei servizi di pubblica utilità. La spinta alla privatizzazione è certamente di origine comunitaria, in omaggio ai principi della concorrenza e alla necessità di realizzare più elevati livelli di efficienza gestionale.

Se, in linea generale, la privatizzazione di tali servizi appare come logica evoluzione nel contesto di una sempre più libera economia di mercato, è altrettanto vero che elementi fondamentali di gestione del territorio finirebbero per non essere più governati dall’entità politico-amministrativa che vi sovrintende.

Per questo è un problema che va preso con le molle.
Se si sposassero, infatti, tesi “oltranziste” di libera concorrenza, si finirebbe con danneggiare l’aspetto sociale connesso ai servizi. Si avrebbe una maggiore efficienza gestionale che però, puntando al profitto, porterebbe non solo all’aumento dei costi di tali servizi, ma escluderebbe anche da parte degli enti locali ogni possibile condizionamento sulle scelte aziendali praticati da tali soggetti.

Ecco perché questa privatizzazione, soprattutto se realizzata nelle aree di minor reddito e di minore sviluppo economico, potrebbe rivelarsi per imprese e famiglie un altro, pericoloso boomerang.

E’ insomma un problema che va affrontato con molta ponderazione e grande  buon senso se non vogliamo cadere dalla padella nella brace  aggiungendo altri problemi a quelli già esistenti e che, sotto il profilo sociale ed economico, sono già, per un organico sviluppo di questo paese, di grande rilevanza.

Prima realizziamo un sistema territoriale più efficiente e poi affrontiamo annessi e connessi. Rovesciare la piramide, in un momento così delicato di trapasso, non gioverebbe a nessuno.



Redattore: Redazione Upi
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