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ASSEMBLEA NAZIONALE DELLE PROVINCE D’ITALIA “Le Province, storie d’Italia” Relazione del Presidente dell’Upi Giuseppe Castiglione

RELAZIONE DI GIUSEPPE CASTIGLIONE PRESIDENTE UPI

Istituzioni e Riforme    7/12/2011

 Relazione del Presidente dell’Upi

Giuseppe Castiglione

  

Roma, 5- 6 dicembre 2011

Centro Congressi Roma Eventi

Via Alibert, 5

                                                                                             

 Premessa

Cari colleghi, care colleghi, cari ospiti mai come quest’anno l’Assemblea Annuale dell’Upi si svolge in un momento davvero cruciale per la vita del Paese.

            Permettetemi, prima di tutto, di salutare con particolare calore ed affetto i colleghi delle Province di La Spezia, di Genova,  di Massa Carrara, di Messina e delle altre Province, che hanno dovuto, con coraggio e determinazione, affrontare la tragedia delle alluvioni che hanno sconvolto le nostre terre e hanno lasciato lutto e distruzione.

            Voi, cari Presidenti, Consiglieri, Assessori, insieme a tutto il personale delle vostre Province, siete stati capaci di intervenire da subito per dare risposte alle comunità nel momento dell’emergenza e avete avuto la forza di cominciare un’opera di ricostruzione che sarà dura, lunga e difficile.

E’ in momenti come questi che si misura la forza di una comunità, e, lasciatemelo dire, è anche da questo che emerge quanto la Provincia sia un punto di riferimento indispensabile per i cittadini e per le istituzioni dei territori.

Carissimi, viviamo davvero una profonda crisi che sta rimettendo in discussione tutto il sistema di certezze, istituzionali, politiche e prima di tutto economiche, su cui gli Stati avevano fin qui fondato le proprie basi.

I cittadini sono stati costretti a prendere confidenza con termini finora noti ai pochi: spread, bund, fondo monetario, banche e finanza sono diventati argomenti di discussione nei bar e sulle metro.

Il messaggio che come istituzioni di questo Paese abbiamo il dovere di dare è che faremo la nostra parte per sostenere il nuovo Governo nelle sfide che dovrà affrontare per restituire alle comunità opportunità e capacità di reagire e tornare a crescere.

Le Province, come recita il titolo dell’Assemblea e come evoca il video clip con cui abbiamo voluto aprire questo nostro incontro, sono parte della storia dell’Italia: lo sono le storie delle Province, delle istituzioni che le guidano e dei cittadini che le abitano.

Per rimarcare questo legame, abbiamo scelto alcune parole che, secondo noi, sono quelle che più di tutte rappresentano il valore stesso delle Province.

Ne cito solo alcune, tra quelle che avete visto scorrere nel video: democrazia, benessere, cittadinanza, costituzione, comunità, condivisione, fare rete, partecipazione, sostenibilità, lavoro, occupazione.

Ma anche parole nuove, come  Wi Fi, Green Economy, risparmio energetico, Digital Divide. Perché le Province hanno saputo dimostrare di essere una pubblica amministrazione capace di cogliere le sollecitazioni di apertura verso il futuro, verso la modernità, che dalla società venivano loro poste.

Proprio la settimana scorsa, a Potenza, abbiamo discusso di Green Economy come motore di sviluppo per il Mezzogiorno, in un incontro molto partecipato dove, insieme al Presidente della Provincia Piero Lacorazza che ringrazio per il grande impegno che pone su questi temi,  abbiamo ricordato come la promozione delle energie da fonti rinnovabili sia ormai una competenza di punta delle Province, che hanno avviato sui territori politiche di sviluppo fortemente innovative, dalla installazione degli impianti fotovoltaici sugli edifici pubblici alla promozione dell’utilizzo delle biomasse.

Stiano dimostrando di poter dare un contributo decisivo per il raggiungimento degli obiettivi della strategia 2020, in materia di sostenibilità energetica e ambientale fissati dalla UE. Attraverso il “Patto dei Sindaci”, che vede impegnate oltre 40 amministrazioni in progetti di coordinamento e sostegno per la produzione di energie alternative, stiamo lavorando come strutture di supporto dei Comuni, e questo conferma il ruolo strategico che il sistema delle Province italiane sta giocando nella sfida per la sostenibilità ambientale. 

E’ chiaro che in un contesto così complicato ed incerto tutta la discussione sulle Province, sulle riforme istituzionali, sul riassetto dei territori, già fin troppo infarcita di demagogia e qualunquismo, è diventata, negli ultimi sei mesi, una delle bandiere di chi intende ridurre a puro chiacchiericcio una questione che invece merita impegno, coraggio, determinazione e serietà per essere affrontata e risolta.

Mi permetto di sottolineare però che, come ci ha appena raccontato il Presidente dell’Ipsos Nando Pagnoncelli, chi sostiene di parlare a nome della totalità degli italiani portando avanti la bandiera dell’abolizione delle Province, dimostra chiaramente di non avere la minima idea di come la pensi davvero il Paese.

 Se, nonostante tutta la campagna mediatica, nonostante il continuo delegittimare questa istituzione, nonostante ci sia chi si ostini a volere indicare nelle Province il male assoluto per nascondere i veri problemi della politica,  solo il 27% degli italiani afferma che sia opportuna l’abolizione delle Province,  questa è l’ennesima dimostrazione del fatto che in questo Paese molti di quelli che siedono nel Parlamento hanno completamente perso qualunque legame con i cittadini. 

Non vogliamo con questo autoassolverci, né tirarci indietro: solo ripristinare la verità.

Se vogliamo davvero riformare l’Italia, allora dobbiamo sgomberare il campo dalla demagogia: la politica urlata, la delegittimazione della democrazia e delle istituzioni, le parole al vento, non convincono più nessuno.

I cittadini ci chiedono di trovare soluzioni insieme, e chiedono al Parlamento di ascoltare le istituzioni locali, perché sanno bene che è da queste che riceveranno le risposte ai loro bisogni.  Il Paese merita che questioni così importanti vadano affrontate con  serietà e anche, se possibile, con un pizzico di umiltà, dote che dovrebbe contraddistinguere chi decide di mettere la propria opera al servizio della comunità.

 

  1. Il quadro economico di riferimento

 

L’attuale situazione di crisi economica e finanziaria mondiale che stiamo vivendo e che sta drammaticamente investendo i singoli stati europei e l’Europa nel suo complesso ha infatti posto in risalto questioni fondamentali e tendenze non sostenibili che non possono essere più ignorate.

 

Proprio la scorsa settimana, l’Ocse ha tagliato la stima di crescita del Prodotto Interno Lordo italiano, prevedendo per il 2012 una diminuzione del – 0,5%.

 

L’Italia, quindi, è in pieno rischio recessione, in un contesto generale fortemente compromesso: il PIL europeo nel 2009 è sceso del 4%, la produzione industriale è progressivamente calata e 23 milioni di persone, pari al 10% della popolazione attiva europea, sono attualmente disoccupate.

 

In questo contesto drammatico, purtroppo, si è innestata l’attuazione del processo di federalismo fiscale, e noi, lo dico con chiarezza, non vorremmo mai che la difficile situazione economica venga presa a pretesto per fermare un percorso che, insieme a Regioni e Comuni, abbiamo non solo condiviso, ma sostenuto e supportato.

 

Lo abbiamo fatto perché siamo fermamente convinti che solo il legame tra autonomia e responsabilità, che è la filosofia alla base della legge 42 sul federalismo fiscale, insieme alla riforma che porterà all’efficientamento dei bilanci grazie al passaggio dalla spesa storica ai costi standard, siano indispensabili per garantire alle Regioni e agli enti locali la capacità di amministrare al meglio i territori, restituendo ai cittadini fiducia sull’operato delle istituzioni.

 

Per questo crediamo che questo percorso debba essere portato a compimento, e in questo il fatto che a guidare il Paese sia un Governo tecnico non può rappresentare certo un ostacolo, considerato anche la grande convergenza di intenti e il forte senso di responsabilità che tutte le forze politiche hanno mostrato in tutto il dibattito che ha portato all’approvazione della legge sul federalismo fiscale.  

E’ evidente, infatti, che ripresa e sviluppo economico, passano da una riforma federale che ponga quali basi ben ferme la coesione nazionale e sociale.

 

Certo, c’è bisogno di fare un punto su quello che è stato fatto e bisognerà intervenire modificando alcuni passaggi decisivi, altrimenti si rischia di mettere in piedi un meccanismo che non può reggersi perché privo delle gambe.

 

Bisogna operare per permettere al Paese di affrontare con maggiore autorevolezza le sfide che ci pone davanti l’Europa, dal processo di globalizzazione alla costruzione di nuovi modelli di sviluppo per costruire una vera Unione, identitaria, politica, civile.

 

Alle istituzioni locali è riservato un ruolo da protagonisti, che ha bisogno, per questo di governi capaci di operare in piena autonomia: se partiamo dal presupposto che le risorse finanziarie a disposizione sono davvero scarse, allora è chiaro che è necessario uno sforzo unitario da parte di tutti i Paesi membri, in un’ottica di forte coordinamento delle politiche economiche che rappresenta l’unica via verso la stabilità e la crescita dell’Europa.

 

Qui ritroviamo uno dei nodi, delle grandi criticità, che ci riguardano direttamente, e cioè la questione della maggiore efficacia ed efficienza nell’utilizzo dei Fondi Strutturali, come ci raccontano i dati allarmanti evidenziati nel Rapporto Annuale 2010 sugli interventi nelle aree sottoutilizzate, predisposto dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

 

Al 28 febbraio 2011 su un totale di 59,4 miliardi di euro (tra Fondi Comunitari e cofinanziamento nazionale), in Italia il livello di spesa si attesta al 12,3 % (7,3 miliardi di euro), mentre gli impegni sono al 24,9% (14,7% miliardi di euro).

 

Nel Mezzogiorno, tra Programmi regionali, interregionali e nazionali (POR, POIN e PON) su un totale di 47 miliardi di euro, la spesa effettiva è al 9,8% (4,2 miliardi di euro) mentre gli impegni sono al 21% (9,2 miliardi di euro).

Le percentuali sono un po’ più alte al centro nord, dove la spesa è al 19,3% (3 miliardi di euro) e gli impegni raggiungono il 35% (5,5 miliardi di euro).

 

E’ una situazione di grave inefficienza che davvero non possiamo permetterci. 

 

Con l’orgoglio del lavoro svolto, vogliamo proporre al nuovo Governo ed in particolare al Ministro per la Coesione territoriale, di avviare fin da subito un confronto con le Regioni, le Province e i Comuni, per individuare le soluzioni migliori per velocizzare l’utilizzo dei fondi europei sui progetti di sistema, che  consentano ai territori più svantaggiati e, quindi, a tutto il Paese, di modernizzarsi e di affrontare la sfida del rilancio e della crescita.

 

Le risorse europee per le Autonomie territoriali sono preziose,  soprattutto in un momento in cui, a livello nazionale, i bilanci di Regioni, Province e Comuni si trovano ad essere costantemente tagliati e imbrigliati dalle manovre economiche.

 

  1. 2.      Dalle manovre economiche alla legge di stabilità

 

Volendo ripercorrere brevemente gli ultimi 12 mesi che di fatto ci dividono dall’Assemblea dello scorso anno a Catania, si può con certezza affermare che il quadro di forte peggioramento della finanza regionale, provinciale e comunale, ha acuito le sue caratteristiche in una direzione di pericoloso non ritorno.

 

E’ chiaro che, schiacciate dai tagli del Governo e, a cascata,  da quelli che hanno operato le Regioni, e da una autonomia finanziaria del tutto inesistente, i bilanci delle Province sono quelli che soffrono maggiormente di questa condizione.

           

Il ritratto attuale della finanza provinciale è infatti contraddistinto da un forte peggioramento, da qualunque punto di vista lo si voglia guardare.

 

Le entrate dell’ultimo quinquennio sono in netto e progressivo calo, l’autonomia tributaria è poco significativa, infine le mutevoli e stringenti regole del patto di stabilità interno hanno pesantemente  contratto la programmazione e realizzazione degli investimenti.

 

La manovra finanziaria definita dal decreto legge 78/10 declinata lo scorso anno in un contesto economico già seriamente provato dalla crisi, aveva gravato in maniera pesante sulle Province con i tagli pesantissimi ai trasferimenti erariali (300 milioni nel 2011 e500 apartire dal 2012), nonostante il comparto delle autonomie locali sia sempre stato, negli ultimi anni quello che ha centrato e sopravanzato gli obiettivi imposti dal patto di stabilità interno.

 

Ricordo infatti che su una cifra complessiva della manovra (24 miliardi) a carico del comparto delle autonomie regionali e locali sono stati assegnati obiettivi di rientro per 15,3 miliardi.

 

Ma come è noto i tagli del dl 78 non sono stati sufficienti: l’ingresso in una fase ancora più critica dell’economia ha indotto il Governo a definire, nel giro di pochi mesi, altre due manovre finanziarie, il decreto di luglio n. 98 (convertito dalla legge n.111/11) ed il decreto di agosto n. 138/11 (convertito dalla legge 148/11).

 

Una successione impressionante di misure a carico del comparto delle autonomie locali, ancora una volta destinatarie di una quota eccessiva del riparto della manovra intera su ogni settore della pubblica amministrazione.

 

Le sole Province si vedono così obbligate a garantire nel quadriennio 2011-2014 un contributo alla finanza pubblica di circa 7,5 miliardi di euro tra tagli e nuovi obiettivi di patto.  

 

Cifra assai ingente ed evidentemente insostenibile, che rischia di avere ripercussioni gravi sui servizi ai cittadini.

 

Lo abbiamo denunciato più volte: abbiamo detto chiaramente che tagliare le risorse alle Province vuol dire impedire di fare manutenzione sulle strade, non permetterci di lavorare per rendere le scuole dei nostri ragazzi non solo sicure ma moderne, tecnologicamente avanzate, capaci di favorire un nuovo modello di formazione in grado di farci competere degnamente con il resto del mondo.

 

Abbiamo detto, in tempi non sospetti, che non si poteva immaginare di risparmiare sulla lotta al dissesto idrogeologico, sulla tutela del territorio, perché senza una continua opera di manutenzione e di salvaguardia l’Italia, per come è morfologicamente fatta, è a rischio.

 

Tagli che impattano direttamente nella vita dei cittadini, perché agiscono sulle istituzioni che direttamente sono al servizio delle comunità.

 

E’ di tutta evidenza la stretta correlazione tra il giro di vite imposto alle Regioni con gli spazi finanziari per Comuni e Province.

 

Basti pensare ad esempio al trasporto pubblico locale, i cui tagli impattano fortemente sulla possibilità, per regioni e comuni, di continuare ad erogare un servizio anche solo appena sufficiente a coprire il fabbisogno di mobilità dei territori, così come i tagli alla assistenza ricadono immediatamente sui Comuni, primi erogatori di politiche sociali.

 

Ma il principale vulnus per le politiche di bilancio delle Province è la  forte contrazione delle spese per investimento e dei pagamenti in conto capitale per interventi già realizzati.

 

La situazione è assolutamente insostenibile.

 

Sia le Commissione Parlamentari competenti che nel 2010 licenziarono il documento conclusivo dell’indagine sulla finanza locale in cui viene chiaramente sottolineato che “pur contribuendo negli ultimi anni al contenimento degli andamenti della finanza pubblica locale, l’applicazione del patto ha determinato alcuni effetti distorsivi…… il carattere stringente dei coefficienti del patto, conseguente all’obiettivo della manovra, e il contestuale congelamento dell’uso della leva fiscale, hanno determinato una forte compressione della spesa per investimenti degli enti locali” ; ma anche la Corte dei Conti, in occasione del dibattito parlamentare per la conversione del decreto legge n. 98/11, ebbe a rimarcare che “per gli enti territoriali, la manovra realizzata attraverso la conferma dei tagli dei trasferimenti erariali e l’ulteriore correzione per il 2013 e 2014 si presenta certamente impegnativa. ……. Gli interventi sulla spesa andranno coniugati con il mantenimento del livello quali/quantitativo dei servizi, che assicuri la copertura delle funzioni fondamentali e dei livelli essenziali delle prestazioni” ….. “rimarrà alto il rischio di un ulteriore abbattimento della spesa destinata agli investimenti”

 

Medesima riflessione fu reiterata in sede di audizione per il decreto legge n. 138/11: “con un sistema di vincoli che continua ad individuare, come un unico obiettivo, il saldo tra entrate e spese finali, rimane alto il rischio di un ulteriore abbattimento della spesa destinata agli investimenti (che sconta già nel quadro tendenziale una riduzione di oltre l’11 per cento)”

 

Non solo l’UPI dunque riferisce di una situazione di estrema sofferenza dei bilanci provinciali, ma soprattutto emerge con sempre maggiore intensità il problema dei residui passivi bloccati dal patto di stabilità, con tutte le conseguenze che questo comporta sulla salute delle imprese che hanno lavorato con gli enti locali.

 

 Il ritardo dei pagamenti della PA e le difficoltà conseguenti per il tessuto produttivo sono ormai considerati elementi che contribuiscono all’acuirsi della crisi economica.

Secondo stime dell’ufficio studi di Confindustria, questa impossibilità di pagare in tempi ragionevoli della pubblica amministrazione produce un aumento dei costi delle opere e dei servizi di oltre il 10% e quindi un aggravio di circa 10 miliardi di euro l’anno a danno delle casse dello Stato.

Per non dire che, evidentemente, genera fenomeni distorsivi nella domanda dell’offerta, perché è ovvio che saranno sempre di più le grandi imprese, quelle con le spalle capaci di sostenere la mancanza di una  liquidità immediata, a offrirsi per la prestazione d’opera nella Pa, con un evidente impoverimento della Piccola e Media imprenditoria locale, e, quindi, dell’economia dei territori.

 

Di questo parleremo domani in una tavola rotonda cui abbiamo chiamato a confrontarsi i rappresentanti dei sindacati, delle imprese, dell’edilizia e delle cooperative, perché crediamo che su questo fronte ci debba essere una presa di posizione unitaria e responsabile da parte di tutti.

 

Le Province hanno calcolato una massa di residui passivi in conto capitale di circa 5 miliardi, di cui immediatamente spendibili nel 2012 circa 2,5 miliardi.

 

Tutte risorse, queste, sottratte alle categorie produttive che hanno fornito infrastrutture, beni e servizi  per conto delle Province.

 

  1. Lo sviluppo e la crescita

 

La fase di recessione che il Paese si trova ad attraversare va contrastata, mettendo in campo misure anticicliche che pongano in primo piano interventi capaci di sbloccare l’economia ingessata, fare ripartire gli investimenti, facilitando così anche la nascita di nuove imprese e la ripresa dell’occupazione, ridurre il debito promuovendo allo stesso tempo la crescita.

 

Sappiamo bene, perché ormai l’allarme è generalizzato a partire dalle Associazioni delle imprese e delle costruzioni, che una delle emergenze del Paese è rappresentato dal drammatico calo degli investimenti pubblici di Regioni, Province e Comuni che fino a ieri rappresentavano il 60% del totale della pubblica amministrazione.

 

Le Province da sole hanno visto ridursi la capacità di promuovere investimenti di oltre il 24%.

 

Noi abbiamo l’ambizione di ritenere che ci sia ancora tempo per invertire questa tendenza, partendo da quelle che per tutti devono diventare le priorità assolute: la crescita e la coesione sociale.

 

Possiamo farlo, se riusciamo a mettere in campo interventi  urgenti tra il Governo centrale e il sistema delle Autonomie, che riportino al centro i territori e ripartano dallo sblocco degli investimenti locali, in quanto risorse immediatamente spendibili e dal sicuro rendimento sociale.

Abbiamo fatto alcune proposte precise al Presidente del Consiglio Monti.

  • La prima, senza la quale davvero non vediamo possibilità di ripresa, né per noi, né per i Comuni e le Regioni, è la modifica del Patto stabilità interno per le autonomie territoriali per sostenere le imprese anche con la possibilità di effettuare pagamenti in deroga ai vincoli del patto. Con un Piano almeno Triennale (2012-2014) si possono liberare risorse di Comuni e Province destinate ai pagamenti dei lavori già appaltati, e bloccati nelle casse degli Enti locali
  • La seconda è la drastica riduzione della spesa improduttiva delle pubbliche amministrazioni per spostare le risorse sugli interventi in settori strategici: infrastrutture, edilizia scolastica, ambiente, energie rinnovabili, nuove tecnologie.
  • La terza proposta prevede l’incentivo all’utilizzo dello strumento del project financing, promuovendo la partnership pubblico – privato per investimenti in opere pubbliche. Noi crediamo che la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe svolgere un ruolo determinate, sul modello della BEI, attraverso il sostegno alla ideazione e realizzazione dei progetti, l’individuazione dei partner possibili e l’abbattimento dei tassi di interesse.
  • Un intervento necessario, che proponiamo,  porta in primo piano il rapporto tra legalità e investimenti: crediamo sia necessario promuovere la diffusione delle Stazioni uniche appaltanti previste nella normativa antimafia.
  • Proponiamo poi di utilizzare i fondi FAS per investimenti di carattere strutturale e infrastrutturali nel Mezzogiorno, non prima, però, di avere effettuato una verifica attenta che ci dia conto esattamente di quale sia la cifra a cui questi ammontino.
  • Inoltre, chiediamo di incentivare le dismissioni e le valorizzazioni del patrimonio immobiliare,  e di utilizzate le risorse che ne deriveranno per l’abbattimento dello stock del debito e per sostenere la spesa in conto capitale e lo sviluppo. Le risorse derivanti dalle dismissioni potrebbero essere destinate ad un fondo orientato verso le infrastrutture sul territorio. Per le Province si tratta di intervenire su opere strategiche quali scuole, strade e tutela del territorio.
  • Riteniamo che la crescita e la coesione passino attraverso la semplificazione del sistema di governance regionale e locale, per questo chiediamo che sia incentivata la dismissione delle quote di partecipazione di Regioni, Province e Comuni nelle società, enti e agenzie partecipate, e che tutto ciò che da questo si ricaverà, che secondo le nostre stime è non meno di 2,5 miliardi,  sia destinato agli investimenti nello sviluppo locale.
  • E’ necessario poi favorire politiche integrate per il sostegno alle imprese, la ricerca e l’internazionalizzazione, mettendo al centro azioni gli investimenti per l’innovazione nelle reti e nei servizi pubblici e privati.
  • Bisogna rilanciare, sostenere e valorizzare le politiche attive per la promozione dell’occupazione, attraverso un raccordo migliore tra l’istruzione, la formazione professionale e le politiche per il lavoro.
  • E’ necessario semplificare le procedure amministrative e promuovere profonde liberalizzazioni delle attività economiche.

 

Si tratta di proposte concrete, e abbiamo la presunzione di ritenerle anche sensate. Soprattutto, si tratta di proposte immediatamente operative, e il Paese di questo ha bisogno adesso.

Di interventi che possano dare un sollievo nell’immediato, accanto a riforme strutturali che daranno i loro frutti nel tempo.

 

Certo, quello che non ci serve, è andare a sconvolgere l’assetto istituzionale del Paese, alla ricerca di risparmi di spesa del tutto inesistesti, stravolgendo la Costituzione che invece è e deve restare il faro da cui farci guidare. 

 

  1. Le norme ordinamentali nelle manovre economiche

 

In tutti i Paesi europei, tuttavia, nell’estate del 2011 è riesploso il tema della riduzione della spesa pubblica. Soprattutto per l’Italia questo è un nodo centrale da affrontare per risolvere il problema del debito pubblico anche sulla base delle indicazioni delle istituzioni europee.

 

In questi anni le manovre economiche hanno cercato di ridurre i margini di autonomia e libertà nei bilanci degli enti locali per fare in modo che essi contribuissero alla riduzione della spesa pubblica.

 

Se si guardano i dati aggregati della spesa pubblica del Paese in questi ultimi anni possiamo però facilmente verificare che la spesa pubblica è calata a livello locale, mentre è continuata a crescere a livello nazionale e a livello regionale (soprattutto nelle Regioni a statuto speciale), come dimostrano i dati pubblicati dall’Istat e le diverse relazioni della Corte dei Conti.

 

I Comuni e le Province hanno avviato da tempo un percorso di riduzione dei costi e delle inefficienze e, non a caso, hanno ridotto le spese di personale, contraendo i loro organici e avviando la razionalizzazione delle loro strutture.

 

L’esigenza di riduzione dei costi degli apparati politici ha, inoltre, spinto il Governo ad inserire nelle manovre finanziarie norme che riducono sensibilmente il livello della rappresentanza democratica. Questo è avvenuto per ultimo negli articoli 15 e 16 del decreto legge 138/11 con interventi pesanti sui piccoli comuni e sul numero degli amministratori (consiglieri e assessori) provinciali.

 

Prima di quest’intervento normativo, il personale politico delle Province ammontava a circa 4.000 unità. A seguito dell’approvazione del decreto legge 2 del 2010 il numero dei consiglieri e degli assessori è stato ridotto del 20%. Con il decreto legge 138 del 2011, come convertito dalle Camere, è stata operata un’ulteriore riduzione del 50% sul numero dei consiglieri e degli assessori provinciali che porta all’assurdità di Consigli provinciali composti dal 18 – 14 – 12 – 10 consiglieri a seconda della fascia di popolazione.

 

E’ evidente che quest’abbattimento di circa il 60% del numero degli amministratori provinciali rispetto a quanto oggi previsto pone principalmente un problema di rappresentanza democratica della comunità territoriale e di funzionamento dei consigli nel rapporto tra maggioranza e minoranza.

 

5. L’assurdo diktat della BCE

 

In questa estate di crisi e di continui interventi abbiamo dovuto assistere anche ad un atto che non esitiamo a considerare del tutto fuori luogo. Mi riferisco alla ormai nota lettera del 5 agosto che la Bce  ha inviato al Governo italiano, che entra a gamba tesa in temi come l’assetto democratico del Paese del tutto estranei ad uno istituto che di ben altro dovrebbe occuparsi e che, di fatto, commissaria l’operato dell’Italia.

 

Lettera a partire dalla quale un po’ tutti si sono sentiti legittimati a rilanciare la richiesta del taglio delle province per dare un segnale ai mercati e uscire dalla crisi , all’insegna dello slogan “Ce lo chiede pure la Bce”.

 

La lettera della BCE chiedeva, espressamente, al Governo di dare il via a misure ritenute essenziali per accrescere il potenziale di crescita, dal miglioramento della qualità dei servizi pubblici, alla riforma del fisco, alle liberalizzazioni, e solo in chiusura, incoraggiando il Governo ad avviare una riforma completa della pubblica amministrazione, la BCE indicava  la possibilità di abolire o accorpare alcuni strati amministrativi intermedi, come le Province.

 

Una misura, che, e a ben ragione,  non è inserita nella lettera tra quelle indispensabili per favorire la crescita, perché  non produce alcun risparmio.

 

Tra tutte le soluzioni possibili, i soliti noti si sono concentrati solo sulla raccomandazione finale, ovviamente nell’accezione più negativa proposta,  quella della secca abolizione delle Province.

 

Questa scelta corrisponde alla volontà di inseguire le derive demagogiche, ma non segue un coerente disegno di riforma delle istituzioni, legato alla storia del nostro Paese.

 

Eppure il nostro Parlamento aveva appena finito di discutere sull’abolizione delle Province (appena un mese prima) e aveva manifestato un orientamento favorevole alla razionalizzazione (e non alla soppressione) delle Province.

 

  1. 6.      Abolizione delle Province

 

Nonostante ciò, il Governo Berlusconi ha deciso di dare una risposta alla lettera della BCE, attraverso il “disegno di legge costituzionale di soppressione di enti intermedi” approvato dal CdM lo scorso 8 settembre, prevedendo l’abolizione delle disposizioni costituzionali sulle Province e la loro trasformazione in enti strumentali regionali.

 

Il Governo ha poi inserito il tema dell’abolizione delle Province come impegno anche nella sua lettera alle istituzioni europee.

 

Come mai piuttosto non si è deciso di rispedire questa sollecitazione al mittente?

 

Perché uno Stato sovrano dovrebbe mai accettare che la BCE, autorizzata a dare suggerimenti sulle misure economiche, si intrometta in maniera diretta sul modo in cui un paese democratico intende organizzarsi a livello politico e istituzionale, senza che questo peraltro porti ad alcun risparmio di costi?

 

Qualcuno, invece di riempirsi la bocca della lettera,  in casa nostra avrebbe quantomeno dovuto farlo notare. 

 

Come avrebbero fatto certamente i nostri partner europei, Germania e Francia prima di tutto, dove le Province ci sono eccome. Così, come Confederazione Europea dei Poteri Locali Intermedi, abbiamo inviato una lettera ufficiale al Governatore della Banca  Europea, esprimendo sconcerto per la palese ingerenza nelle questioni politiche istituzionali interne di un Paese membro dell’UE.

 

La scelta del nostro Governo ha invece comportato una immediata delegittimazione politica delle Province, quali istituzioni costitutive della Repubblica, e degli amministratori provinciali, che sono stati eletti a suffragio universale, direttamente dal popolo.

 

Per questo abbiamo ribadito immediatamente  nell’assemblea straordinaria dei Presidenti di Provincia del 15 settembre i seguenti punti che per noi restano come i presupposti essenziali di ogni possibile intervento di riordino delle istituzioni della Repubblica:

 

  • La Costituzione prevede che la Repubblica sia costituita da Comuni e Province come enti di governo locale esponenziali di una comunità territoriale e come imprescindibili presidi di un ordinamento pluralistico e democratico.

 

  • Principio fondamentale della Costituzione, all’art. 5, è il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali che sono legate alla storia del Paese (i Comuni e le Province) e la Corte costituzionale ha più volte affermato che i principi fondamentali della Costituzione non possono essere oggetto di revisione costituzionale.

 

  • Ma, ancor di più, questa scelta costituisce un vulnus alla rappresentanza democratica dei territori. Mentre la gran parte dei corpi sociali è organizzata a livello provinciale si fa venire meno l’istituzione democratica che dovrebbe rappresentarli. Viene meno la tradizionale organizzazione dei poteri locali tra il Comune capoluogo e il territorio circostante, che vede nella Provincia l’ente esponenziale che consente di raccordare l’area vasta e i territori rurali intorno al centro urbano di riferimento.

 

  • Allo stesso tempo, questa scelta stravolge la riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, poiché rimette in discussione l’equilibrio che nel 2001 si era raggiunto tra le Regioni e le Autonomie locali, senza risolvere i principali problemi che la riforma costituzionale del 2001 presentava, ovvero la mancata istituzione del Senato federale e il mancato riconoscimento dell’accesso alla Corte costituzionale per le autonomie locali.

 

  • Nella prospettiva di un riordino complessivo delle istituzioni pubbliche è evidente che occorre ripensare profondamente il ruolo degli enti intermedi per l’esercizio delle funzioni d area vasta, come è indicato chiaramente anche nella relazione al ddl costituzionale, tenendo conto che essi esistono in tutti i grandi paesi europei e sono considerati come essenziali nella Carta europea delle autonomie locali.

 

Ovviamente, dopo il momento di euforia iniziale, molti osservatori hanno cominciato ad far notare che l’intervento di abolizione delle Province previsto dal Governo non avrebbe portato ad una riduzione dei costi degli apparati pubblici ma, anzi, ad un loro aumento.

 

Così si getta nel caos le amministrazioni territoriali che oggi dovrebbero essere in prima linea a cercare di dare risposte sulla crisi, causando disservizi per i cittadini e i territori e portando ad un sensibile aumento della spesa pubblica.

 

La mancanza di indirizzi certi al legislatore regionale comporta infatti il rischio che le funzioni di area vasta siano allocate concretamente a livello regionale, con l’aumento dei costi derivanti dal passaggio del personale nel comparto delle Regioni e la conseguenza di favorire ulteriormente le tendenze già in atto di centralismo amministrativo regionale.

 

Non a caso, lo stesso Governo, proprio nel momento in cui ha sottoposto il disegno di legge costituzionale sulla soppressione degli enti intermedi al parere della Conferenza unificata ha accettato la richiesta unitaria delle istituzioni territoriali di affrontare questo tema in una prospettiva più generale di riordino delle istituzioni della Repubblica, dando vita ad una Commissione speciale paritetica mista Governo, Regioni, Enti locali per il rinnovamento delle Istituzioni della Repubblica e per il sostegno allo sviluppo ed alla crescita economica che ha l’obiettivo di elaborare:

 

–          una proposta di riordino istituzionale che prenda in considerazione la legislazione vigente e i provvedimenti che impattano sull’assetto amministrativo ed istituzionale di Regioni, Province e Comuni, al fine di pervenire ad una riforma condivisa e complessiva in senso federale, secondo i principi di riduzione degli organi e dei costi, si soppressione delle duplicazioni e di semplificazione dei processi decisionali, valorizzando comunque l’autonomia dei territori;

 

–          un’analisi dei costi di tutte le istituzioni, organi, apparati della Repubblica, ivi compresi gli enti finanziati con risorse statale, per perseguire l’obiettivo di riduzione della spesa pubblica;

 

–          una proposta di revisione delle regole del Patto di stabilità interno.

 

Come Province siamo fin da subito pronti a confrontarci con il nuovo Governo su questi impegni importanti.

 

Domani, attraverso lo studio che abbiamo affidato all’Università Bocconi – per inciso, ben prima della crisi di Governo e dell’era Monti – abbiamo provato, dati alla mano, ad elaborare alcune proposte, modelli su cui crediamo opportuno che il Paese possa riflettere.

 

Che partono da dati chiari, certificati, spazzando via tutte le inutili congetture e le finte analisi che troppo spesso vengono prese a pretesto per fare polemica, per provare a dare risposte vere su temi cruciali quali i margini di efficientamento che ci sono nei bilanci delle  Province, al riordino delle funzioni fino alla prefigurazione di un possibile riassetto delle Province.

 

Infatti sappiamo bene che, se a seguito delle dimissioni del Governo Berlusconi e all’insediamento del nuovo Governo Monti, se è decaduto il disegno di legge costituzionale di abolizione delle Province,  certo non possiamo considerare risolto il problema.

 

Il tema è stato ripreso anche nelle dichiarazioni programmatiche del nuovo Presidente del Consiglio in Parlamento che ha detto, cito : “Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria; la prevista specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo, consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l’Europa.

 

A queste affermazioni del presidente Monti abbiamo replicato che siamo pronti a confrontarci sul tema del riordino delle Province, attraverso legge ordinaria, per garantire al Paese Enti Locali razionalizzati e sempre più capaci di rispondere alle esigenze che attraversano le comunità locali.

 

Allo stesso tempo, tuttavia, abbiamo chiarito che, in una stagione di crisi economica come quella che stiamo attraversando, non è praticabile la strada che porta allo stravolgimento della Costituzione e delle istituzioni che costituiscono gli elementi costitutivi della Repubblica.

 

Noi vogliamo Province con ambiti di competenza territoriale  più chiari legati alle funzioni di area vasta. Ma vogliamo, anche, che le Province abbiano la capacità effettiva di incidere nel governo locale e siamo pronti perciò a confrontarci anche sul tema della razionalizzazione.

 

In questa prospettiva di riordino i veri risparmi sui costi delle istituzioni potranno essere effettuati eliminando la miriade di enti di secondo livello che, nella confusione di questi ultimi anni, hanno fatto aumentare i costi della gestione pubblica ed hanno sottratto competenze alle istituzioni democraticamente elette.

 

Nella prospettiva di un profondo riordino delle amministrazioni pubbliche, secondo le linee indicate nel titolo V, parte II, della Costituzione, può essere affrontato il tema del riordino del governo di area vasta nel nostro Paese.

 

Partendo, innanzitutto, dalle funzioni . Ci sono troppe sovrapposizioni amministrative tra i livelli di governo. In molti settori Regioni, Province e Comuni esercitano compiti analoghi con appesantimento della pubblica amministrazione e duplicazione di apparati.

 

Il “chi fa che cosa” è quindi prioritario a qualsiasi intervento.

 

Noi vogliamo che le Province esercitino esclusivamente le funzioni di aerea vasta che non possono essere svolte dai Comuni singoli o in forma associata ( istruzione , formazione e lavoro, ambiente e governo del territorio, viabilità , trasporti e infrastrutture ) e che siano trasferite  invece ai Comuni tutte quelle funzioni di base come il sociale, la cultura, il turismo che tra l’altro non sono previste come nostre funzioni fondamentali.

 

Contestualmente alle funzioni di Comuni e Province deve essere avviata una profonda opera di semplificazione amministrativa.

 

E’ indispensabile abolire tutti gli enti intermedi che, senza una legittimazione e un controllo democratico, esercitano impropriamente funzioni pubbliche. Su questi enti si annida il veri costo della politica. ATO, consorzi di bonifica, enti parco regionali, bacini imbriferi montani, enti e agenzie regionali: il costo per il Paese di tutto ciò è di oltre 7 miliardi di euro.

 

C’è poi il tema della razionalizzazione delle province.

 

Ribadiamo con convinzione che la riduzione del numero delle Province sulla base di criterio oggettivi di carattere demografico e territoriale si può fare, nel rispetto dell’ art. 133 della Costituzione, anche a Costituzione invariata.

 

Un  passaggio essenziale per il riordino del governo di area vasta è l’istituzione delle città metropolitane, che sono state previste fin dal 1990, inserite in Costituzione nel 2001, ma non sono state mai istituite.

 

Le Città metropolitane possono essere istituite per legge ordinaria, arrivando così al superamento della provincia e del comune capoluogo, con una forte innovazione istituzionale per tutto il Paese.

 

La riorganizzazione degli enti di governo di area vasta porta naturalmente al riordino dell’amministrazione periferica dello Stato.

 

Sulla base della riduzione del numero delle Province dovrebbe essere conseguentemente riordinata l’amministrazione periferica dello Stato, prevedendo anche la riorganizzazione degli attuali uffici decentrati settoriali intorno agli UTG-Uffici territoriali del governo.

 

Un unico ufficio sul territorio per tutte le amministrazioni periferiche dello Stato porterebbe risparmi non quantificabili precisamente, ma ipotizzabili in circa 8-10 miliardi di euro.

 

Come ultimo punto, una questione delicata e politicamente scottante, il sistema elettorale e gli organi di governo delle Province.

 

Nelle proposte di abolizione delle Province non è messa in discussione l’esistenza di interessi che devono essere organizzati su scala provinciale. E’ messa in discussione la presenza nel territorio provinciale di un ente con autonomia politica e legittimazione democratica diretta.

 

Si vuole la provincia come sede di decentramento dello Stato e delle Regioni (o anche come forma associativa comunale) al cui vertice ci siano persone nominate dall’alto, che poi si rapportano con gli interessi organizzati sul territorio provinciale.

 

Non si vuole la Provincia come ente autonomo, al vertice del quale ci siano persone elette dal popolo.

 

Ciò fa senza dubbio emergere l’esigenza di un migliore governance democratica territoriale e di un migliore raccordo tra la Provincia, i Comuni e la Regione, anche dal punto di vista dei sistemi di rappresentanza, di legittimazione democratica, degli istituti dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità.

 

Il problema della governance territoriale provinciale diventa essenziale soprattutto a seguito della sensibile riduzione del numero degli amministratori.

 

L’abbattimento di circa il 60% del numero degli amministratori provinciali rispetto a quanto oggi previsto, infatti, non pone solo un problema di raccordo con i Comuni del territorio, ma anche un problema di rappresentanza delle forze politiche e degli interessi della comunità territoriale negli organi di governo delle Province.

 

Fino ad oggi il sistema elettorale e i collegi uninominali provinciali consentivano alle diverse forze politiche e ai Comuni del territorio di vedere rappresentate nel Consiglio provinciale le loro istanze (spesso attraverso l’elezione di amministratori comunali). La sensibile riduzione del numero degli amministratori provinciali fa venire meno questo rapporto.

 

Per questi motivi è necessario avviare una riflessione sul sistema elettorale provinciale che innovi profondamente il sistema di governo provinciale e permetta di trovare un migliore raccordo con gli altri livelli istituzionali territoriali.

 

Certo, il punto di partenza da cui non possiamo prescindere, è che si mantenga chiara e forte la legittimazione democratica delle Province, attraverso l’elezione diretta del Presidente della Provincia. Quanto agli organi, siamo disponibili a considerare le proposte che ci verranno poste, ma non possiamo che sottolineare la necessità di assicurare che la rappresentanza democratica dei territori non può venire a mancare, o ne verrebbe a soffrire la stessa capacità delle comunità di essere protagoniste delle scelte delle politiche e delle programmazioni di area vasta.

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